Lavoro intermittente: che fine ha fatto e cosa ci aspetta?
L'incertezza normativa derivante dall'abrogazione del r.d. 2567/1923
Dal 9 maggio 2025, il lavoro intermittente ha perso uno dei suoi riferimenti normativi storici: è stato infatti abrogato il Regio Decreto 6 dicembre 1923, n. 2657, che individuava le attività a carattere discontinuo. Questa abrogazione, contenuta nella Legge 7 aprile 2025, n. 56, ha generato incertezza tra imprese, consulenti e lavoratori, poiché il decreto era utilizzato per giustificare uno dei principali presupposti oggettivi del contratto intermittente.
Cos’è il lavoro intermittente?
Il lavoro intermittente, detto anche “a chiamata”, è un contratto subordinato che consente al datore di lavoro di utilizzare il lavoratore solo quando ne ha effettiva necessità. È utile in contesti con esigenze variabili di manodopera, come turismo, ristorazione, commercio, spettacolo ed eventi.
Secondo l’articolo 13 del D.Lgs. 81/2015, il contratto è ammissibile solo in tre ipotesi:
per prestazioni di carattere discontinuo o intermittente individuate dalla normativa (finora, appunto, tramite il Regio Decreto 2657/1923),
per lavoratori con meno di 24 anni o più di 55 anni, a prescindere dal tipo di attività,
se espressamente previsto dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali.
Con l’abrogazione del Regio Decreto, la prima di queste tre opzioni risulta oggi scoperta.
Cosa comporta l’abrogazione?
Il Regio Decreto del 1923 conteneva la tabella delle professioni “discontinue” (come portieri, custodi, guardiani, facchini), alla base delle assunzioni intermittenti per motivi oggettivi. Senza più questa tabella, non esiste oggi una fonte normativa che elenchi quali attività siano da considerare legittimamente intermittenti, rendendo di fatto inapplicabile uno dei presupposti legali del contratto.
Nonostante il Decreto Ministeriale del 23 ottobre 2004 recepisse tale elenco, esso è privo di efficacia autonoma, poiché non può sopravvivere senza il riferimento al Regio Decreto abrogato.
Quali sono le conseguenze pratiche per le aziende?
Le aziende che intendono utilizzare il lavoro a chiamata devono ora prestare particolare attenzione:
Evita l’uso per motivi oggettivi (cioè basati su attività discontinue), finché non verrà reintrodotto un elenco valido.
Concentrati sui motivi soggettivi, cioè lavoratori under 24 o over 55.
Verifica se il contratto collettivo applicabile prevede esplicitamente la possibilità di ricorrere al lavoro intermittente.
Rivaluta i contratti in essere, soprattutto se fondati sull’attività "discontinua" oggi non più normativamente definita.
In caso contrario, c’è il rischio che il contratto venga considerato nullo o riqualificato come contratto a tempo pieno e indeterminato, con possibili sanzioni in sede ispettiva o giudiziale.
E i lavoratori?
I lavoratori assunti con contratto intermittente potrebbero trovarsi in una zona grigia: i contratti già in essere non sono automaticamente nulli, ma è possibile che sorgano controversie sulla loro legittimità, specie per le assunzioni più recenti.
Un lavoratore assunto per una “mansione discontinua” che oggi non ha più riconoscimento normativo, potrebbe far valere in giudizio l’illegittimità del contratto e chiedere la sua riqualificazione.
Serve chiarezza normativa
L’abrogazione del Regio Decreto 2657/1923 ha lasciato un vuoto normativo che va colmato al più presto. Una possibile soluzione sarebbe l’adozione di un nuovo decreto ministeriale che aggiorni e sostituisca la vecchia tabella delle attività discontinue, magari in linea con le esigenze attuali del mercato del lavoro.
Nel frattempo, si invita alla prudenza: il lavoro intermittente non è scomparso, ma può essere usato solo nei limiti attualmente certi, per evitare errori o contestazioni.